Infiammazioni

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 Giada Zanza (Medicina e Chirurgia) Consulente Scientifico:
Giada Zanza
(Specialista in medicina e chirurgia)

Infiammazioni

L’infiammazione è un processo dai due volti: da una parte è una risposta benefica dell’organismo a degli stimoli lesivi; dall’altra può causare notevoli danni ai tessuti. Ma quali sono le cause? Scopriamo i diversi tipi di flogosi e i farmaci ad effetto antinfiammatorio, con un occhio ad eventuali rimedi naturali!

Cos’è un’infiammazione?

L’infiammazione nota anche come flogosi, è una risposta complessa messa in moto dal nostro corpo, meglio ancora del nostro sistema immunitario, rivolto contro un atto ritenuto dannoso operato da fattori esterni di varia natura.

Il sistema immunitario è una rete complessa composta da mediatori chimici e cellule che svolgono la funzione di difendere l’organismo da qualunque agente che possa arrecare danno sia esso di natura: fisica, chimica, biologica. La sua caratteristica fondamentale è la capacità di poter distinguere tra entità, sia esse interne o esterne al corpo, non pericolose e che perciò possono essere mantenute in vita (denominate self) ed entità sempre interne o esterne del corpo ritenute nocive e come tali da doversi distruggere. Il riconoscimento è di tipo chimico e viene effettuato da alcune categorie di cellule deputate allo scopo. I possibili intrusi vanno sotto il nome di antigeni.

Lo scopo dell’infiammazione è duplice:

Come si attiva la risposta infiammatoria.

Nel nostro organismo esistono dei sensori di danno, cioè dei recettori, che riconoscono strutture essenziali per i patogeni e tessuti dell’organismo alterati. Ritroviamo questi recettori:

Ognuno di questi sensori è capace di riconoscere molecole con strutture molto diverse tra loro, una caratteristica tipica dell’immunità innata.

L’attivazione di un recettore, per esempio da parte di peptidi formilati tipici dei batteri, genera un segnale all’interno della cellula che ha lo scopo di attivare dei fattori trascrizionali, come NF-kB.

Un fattore trascrizionale si lega al DNA e consente la trascrizione di geni, e quindi la produzione di proteine legate all’infiammazione. Siamo dotati, insomma, di un vero e proprio programma genetico che protegge i nostri organi e tessuti!

Le proteine sintetizzate vengono dette mediatori della flogosi, perché orchestrano il lavoro delle cellule in tutte le fasi del processo infiammatorio.

Tipi di flogosi.

In base alla sua durata (ma non solo), è possibile distinguere due tipologie di risposta infiammatoria: acuta e cronica.

Infiammazione acuta.

La flogosi di questo tipo è così chiamata perché il processo flogogeno si attiva quasi immediatamente, nell’arco di secondi o minuti, e perché di solito dura poco (a volte può durare qualche giorno).

I suoi segni sono stati descritti con precisione sin dall’antichità, come dimostrano questi termini in latino:

Tali caratteristiche sono dovute ad una intensa reazione del microcircolo - arteriole, venule e capillari, vasi invisibili ad occhio nudo - determinata dalla produzione di mediatori della flogosi, ad esempio l’istamina, l’ossido nitrico (NO) e le prostaglandine.

In questi casi si verifica una vasodilatazione, cioè l’aumento del calibro dei piccoli vasi, e un aumento della permeabilità vascolare, che provoca la fuoriuscita di proteine plasmatiche nel tessuto. Ciò può realizzarsi attraverso:

A livello del microcircolo esiste, normalmente, un gioco di pressioni che consente lo scambio di liquidi, ossigeno e nutrienti nell’ambiente tissutale: il liquido esce a livello dell’estremità arteriolare del microcircolo e rientra all’estremità venulare.

L’aumento del calibro dei vasi e della permeabilità stravolge questo equilibrio, poiché vi è un flusso netto di liquido verso i tessuti. La conseguenza è l’edema, responsabile del gonfiore.

Alcuni dei mediatori coinvolti nella reazione vascolare, come le prostaglandine e la bradichinina, sono algogeni, ossia riducono la soglia del dolore nel sito di flogosi.

A tale reazione vascolare si aggiunge una reazione cellulare legata all’attivazione delle cellule immunitarie e delle cellule endoteliali: i globuli bianchi, cioè, abbandonano il sangue ed entrano nel tessuto per estirpare l’agente lesivo.

Nel corso dell’infiammazione, l’endotelio che riveste i vasi cambia le sue caratteristiche e diventa una superficie adesiva per i globuli bianchi.

Se prendiamo come esempio un’infezione batterica, le prime cellule ad essere richiamate saranno i neutrofili, seguiti dai monociti/macrofagi.

Tali cellule aderiscono all’endotelio grazie alle molecole esposte su quest’ultimo, chiamate selectine e integrine:

Per poter uscire dai vasi sanguigni, le cellule cambiano forma e si spostano con movimenti ameboidi.

Esistono delle molecole, chiamate fattori chemiotattici, la cui concentrazione aumenta man mano che ci si avvicina al sito d’infiammazione, e fungono da guida per le cellule immunitarie.

Grazie all’attivazione, i neutrofili e i macrofagi (che derivano dal differenziamento dei monociti) sono in grado di inglobare per fagocitosi i batteri che hanno causato il danno e quindi la reazione infiammatoria, e di eliminarli grazie:

Di solito, la risposta infiammatoria acuta è seguita dalla riparazione del tessuto, con il ripristino della sua funzionalità o con alterazioni davvero minime. I meccanismi di riparazione del tessuto si attivano precocemente e hanno come esito:

In alcuni casi, la produzione di mediatori della flogosi è sufficientemente elevata da determinare una risposta sistemica che accompagna l’infiammazione locale. Questa reazione di fase acuta è caratterizzata da:

Lo scopo di tale reazione di fase acuta è quello di amplificare la risposta infiammatoria per meglio debellare l’agente lesivo.

Infiammazione cronica.

Come dice il nome, questo processo infiammatorio perdura nel tempo, anche parecchi anni. Rispetto alla flogosi acuta, esso mostra due importanti differenze:

L’infiammazione cronica è caratterizzata dalla continua distruzione del tessuto e da contemporanei tentativi di riparazione: la conseguenza è la progressiva fibrosi dell’organo, che distrugge completamente l’architettura tissutale.

Per definire le conseguenze della flogosi cronica, nel XIX secolo venne aggiunto, ai quattro segni cardinali dell’infiammazione (rubor, calor, tumor, dolor), il termine functio lesa, che indica la perdita di funzionalità provocata dalla graduale sostituzione del tessuto nobile con del tessuto fibroso.

Ma cosa determina la persistenza della risposta infiammatoria? È l’incapacità di eradicare l’agente responsabile di danno, che può dipendere:

L’infiammazione cronica può rappresentare l’evoluzione della risposta acuta; tuttavia, a volte il processo infiammatorio si presenta cronico fin dall’inizio, evolvendosi in maniera insidiosa senza dare particolari sintomi e manifestandosi per la prima volta con delle alterazioni della funzione d’organo.

Cause: le patologie con una componente infiammatoria.



È sorprendente scoprire quante patologie, di natura infettiva e non, siano sostenute da un processo flogistico. Molte delle malattie che presenteremo sono croniche e rappresentano un enorme spesa per la sanità, oltre a ridurre la qualità della vita in chi ne è affetto.

Epatite virale.

L'epatite è una malattia del fegato sostenuta da particolari virus, detti epatotropi perché infettano preferenzialmente tale organo. I più importanti sono il virus dell’epatite B (HBV) e il virus dell’epatite C (HCV).

Tali virus possono essere trasmessi:

Questi agenti patogeni entrano negli epatociti, le principali cellule del fegato, e li usano per replicarsi, aumentando il loro numero in maniera esponenziale.

L’andamento dell’infezione è diverso a seconda del virus considerato:

LHBV può dare una epatite acuta sintomatica o anche asintomatica. Il danno al fegato non è prodotto dal virus in sé, ma dai linfociti citotossici, cellule difensive che distruggono tutti gli epatociti che espongono sulla superficie dei peptidi virali; altri epatociti muoiono invece per apoptosi (suicidio della cellula). I detriti cellulari generati dalla necrosi di queste cellule rappresentano un importante stimolo per l’inizio della risposta infiammatoria. Nonostante la sintomatologia importante associata all’infezione da virus B, questa cronicizza in una percentuale ridotta di casi (5-10%); la probabilità che una persona sviluppi una epatite cronica dipende molto dal vigore della risposta immunitaria.

Dopo un periodo di incubazione, che può durare anche qualche mese, il paziente comincia a manifestare sintomi aspecifici, quali:

Tale sintomatologia non specifica può durare da qualche giorno a qualche settimana. Dopodiché compare l’ittero, una colorazione giallastra della cute, delle mucose e della sclera dell’occhio. Esso è provocato dall’aumento della concentrazione nel sangue della bilirubina, un pigmento derivante dell’emoglobina degli eritrociti andati distrutti, che normalmente viene captata e trasformata dal fegato in una forma più solubile, escreta con la bile.

A causa dell’alterato metabolismo di questa molecola si avranno anche urine scure (ipercromiche) e feci chiare (ipocoliche).

L’HCV, invece, è responsabile di un’infezione asintomatica. Ciò, però, non rende il virus C più innocuo del virus B, anzi: l’infezione evolve facilmente ad epatite cronica (80-85% dei casi).

La risposta immunitaria ormai fuori controllo danneggia il parenchima epatico - cioè il tessuto proprio del fegato - purtroppo non risparmiando la matrice extracellulare, l’impalcatura necessaria per la corretta rigenerazione del tessuto.

Tra le cellule coinvolte vi sono dei macrofagi specializzati, chiamati cellule di Kupffer, che risultano particolarmente attivi nel corso di un’infiammazione del fegato.

Le cellule di Kupffer sono in grado di attivare un’altra popolazione presente nell’organo, le cellule stellate. Normalmente, queste immagazzinano la vitamina A, ma tale risposta infiammatoria anomala determina la loro trasformazione in miofibroblasti: si formano, allora, delle cicatrici fibrose, che modificano l’architettura del fegato in modo irreversibile.

Infatti, con il passare del tempo, l’intero organo risulterà invaso da tralci fibrosi, che isolano dei noduli di epatociti. Si creano, inoltre, dei circoli collaterali che impediscono il contatto del sangue con gli epatociti, e quindi viene meno la capacità emuntoria (ossia di eliminare i materiali nocivi o di rifiuto) del fegato.

Questa situazione prende il nome di cirrosi epatica, che conduce alla morte per insufficienza d’organo; in alcuni casi si ha l’evoluzione ad epatocarcinoma (un tumore del fegato), anch’esso causa di morte.

Sepsi da batteri gram-negativi.

La sepsi è un’infezione batterica che determina una risposta infiammatoria locale, che può essere associata ad alterazioni sistemiche:

Tuttavia, esistono situazioni in cui la risposta sistemica non rappresenta un evento benefico, piuttosto è causa di grossi danni ad organi ed apparati, fino al decesso: è il caso delle gravi infezioni da batteri gram-negativi (come le Enterobacteriaceae).

Negli individui suscettibili, come i soggetti immunocompromessi o i pazienti ricoverati in terapia intensiva, questi batteri, a partire da un focolaio d’infezione (come un ascesso o una polmonite) possono invadere il circolo sanguigno, che normalmente è sterile. Ciò provoca la sepsi, una risposta infiammatoria sistemica agli agenti patogeni che coinvolge tutti i monociti/macrofagi e tutte le cellule endoteliali dell’organismo.

La risposta infiammatoria sistemica conduce, alla fine, allo shock settico, una vera e propria emergenza medica in quanto porta alla morte il 25-50% delle persone colpite.

Ma in cosa consiste, di preciso, lo shock settico?

I batteri gram-negativi sono in grado di sopravvivere grazie alla presenza di una membrana esterna che li circonda. Questa contiene il lipopolisaccaride (LPS) o endotossina, che stimola il nostro sistema immunitario in maniera importante.

Quando l’infezione è molto grave, nel sangue ritroviamo i batteri e il lipopolisaccaride. I macrofagi reagiscono a questa molecola producendo i mediatori di flogosi fattore di necrosi tumorale (TNF) e l’interleuchina-1 (IL-1). Queste molecole provocano la febbre e contribuiscono ad attivare i globuli bianchi e le cellule endoteliali, che produrranno altri mediatori amplificando la risposta infiammatoria acuta.

Nulla di diverso da quanto visto sinora riguardo l’infiammazione, sembrerebbe. Il punto è che le quantità di LPS sono massicce e la risposta del sistema difensivo è imponente, coinvolgendo il microcircolo dell’intero organismo, da cui deriva che:

A causa della ridotta attività cardiaca e dell’ipotensione avviene una drastica riduzione della perfusione degli organi, evento che colpisce in particolar modo il cervello, i reni, i polmoni, il fegato e lo stesso cuore. Se non arriva abbastanza sangue lo stesso vale per l’ossigeno: le cellule riescono a sopravvivere in condizioni di ipossia fino ad un certo punto, poi cominciano a morire in massa (necrosi tissutale).

La conseguenza finale dello shock settico è l’insufficienza multiorgano, che conduce alla morte.

Morbo di Crohn (MC).

Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica della quale non si conosce la causa, che può interessare qualsiasi parte del tubo digerente, ma che solitamente colpisce l’ileo terminale - facente parte dell’intestino tenue - e il colon.

Al momento attuale si pensa che la malattia di Crohn sia la conseguenza di una risposta immunitaria inappropriata ai batteri commensali della nostra flora intestinale, che vengono percepiti come patogeni e rappresentano la scintilla che fa scattare la risposta infiammatoria. Negli individui geneticamente predisposti esisterebbe, quindi, un’interazione tra il microbiota e delle alterazioni:

Inoltre, il morbo di Crohn aumenta il rischio di sviluppare una neoplasia intestinale: l’infiammazione cronica tipica della patologia rappresenta un ottimo terreno per la nascita di un cancro.

La particolarità di questo morbo è che si manifesta “a salti”: lo specialista, infatti, osserverà delle zone colpite dalla patologia separate da tratti di intestino sano.

Ecco le principali alterazioni strutturali che lo contraddistinguono:

Artrite reumatoide (AR).

L’artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che può colpire molti tessuti, ma prende questo nome perché ha come bersaglio elettivo le articolazioni.

La causa è al momento sconosciuta, sappiamo solo che l’infiammazione è provocata da una reazione autoimmunitaria - il sistema immunitario che attacca il suo stesso organismo - in risposta a uno o più antigeni che ancora non sono stati identificati. Inoltre, è anche noto che gli individui con AR presentano dei fattori genetici che aumentano il rischio di manifestare la malattia.

Il processo autoimmune coinvolge le articolazioni mobili, dette anche diartrosi, o articolazioni sinoviali perché presentano una membrana sinoviale che tappezza la cavità articolare, tranne nel punto in cui i capi ossei sono rivestiti da cartilagine. È riccamente vascolarizzata e produce il liquido sinoviale, il quale lubrifica le superfici articolari, riducendo l’attrito durante i movimenti; inoltre fornisce nutrimento alla cartilagine articolare, che non ha un apporto sanguigno.

La risposta infiammatoria modifica l’articolazione nel modo seguente:

Sembra che il ruolo dei linfociti T helper sia assai importante nella patogenesi dell’artrite reumatoide: questi agirebbero stimolando le cellule della membrana sinoviale e le cellule infiammatorie richiamate nell’articolazione a produrre mediatori della flogosi, come il fattore di necrosi tumorale (TNF) e l’interleuchina-1 (IL-1), e altre molecole che promuovono la distruzione delle componenti dell’articolazione.

Possono essere colpiti da tale processo anche la capsula articolare, i legamenti dell’articolazione e i tendinidei muscoli adiacenti.

Gotta.

La gotta è una malattia delle articolazioni, caratterizzata da un eccessivo livello di acido urico nel sangue (iperuricemia). Quest’ultimo è generato dal metabolismo delle purine, tuttavia, nella maggior parte dei casi non si conosce il difetto alla base dell’iperuricemia.

Quando i livelli di acido urico superano i 7 mg/dL, questo non rimane in soluzione, ma precipita formando dei cristalli di monourato di sodio, evento che si verifica soprattutto nelle articolazioni, perché il liquido sinoviale ha delle caratteristiche diverse rispetto al plasma sanguigno.

I cristalli di urato rappresentano qualcosa di anomalo, che richiama i globuli bianchi nell’ambiente articolare, soprattutto neutrofili e monociti/macrofagi. Il comportamento di queste cellule è stereotipato: qualsiasi sia l’agente lesivo, esse lo inglobano per distruggerlo utilizzando radicali liberi ed enzimi lisosomiali. In questo caso, però, qualcosa va storto:

Si parla in questo caso di artrite gottosa acuta.L’attacco di artrite, dunque, compare improvvisamente e coinvolge, all’inizio, una sola articolazione, per esempio la 1a articolazione metatarso-falangea - che collega l’alluce al metatarso - oppure l’articolazione della caviglia.

L’artrite gottosa si caratterizza per il dolore lancinante, che tiene la persona bloccata a letto; poiché c’è infiammazione, l’articolazione si presenta arrossata e gonfia.

Purtroppo, nella maggior parte dei pazienti si verifica più di un attacco di artrite nel corso della vita. Se la patologia viene trascurata, i cristalli di urato continuano a depositarsi nella membrana sinoviale e sulle cartilagini articolari. Col tempo l’infiammazione diventa cronica, in quanto:

Così sopraggiunge l’artrite gottosa cronica, che è responsabile della distruzione delle articolazioni, con progressiva invalidità del soggetto.

In questo caso, la membrana sinoviale reagisce al processo infiammatorio diventando più spessa ed iperplastica. Poi comincia ad occupare uno spazio che non le compete, determinando l’erosione della cartilagine articolare e dell’osso sottostante; infine può provocare l’anchilosi dell’articolazione e quindi l’assenza di movimento.

Un’altra caratteristica della gotta è la formazione di tofi, degli ammassi di cristalli di urato di sodio circondati da un gran numero di cellule infiammatorie. I tofi si sviluppano un po’ ovunque: oltre che nelle articolazioni anche nei tendini, nei lobi delle orecchie, nella pelle, nelle cartilagini nasali o anche nei reni.

Asma allergica.

L’asma è una malattia delle vie respiratorie, che si manifesta con degli attacchi inframmezzati da periodi senza sintomi. Un attacco d’asma è caratterizzato da:

Gli attacchi si manifestano soprattutto la notte e/o nelle prime ore mattutine, e possono durare diverse ore. Raramente si assiste allo stato asmatico, cioè una crisi che può durare giorni ed essere fatale.

La limitazione al flusso d’aria, e quindi della ventilazione polmonare, che si verifica a causa dell’asma è dovuta all’infiammazione delle vie aeree negli individui suscettibili. Il processo infiammatorio è alla base:

Entrambi questi fenomeni sono responsabili dell’ostruzione di bronchi e bronchioli e, quindi, del ridotto passaggio dell’aria.

La risposta infiammatoria nell’asma è assai complessa, perché coinvolge differenti tipi cellulari e moltissimi mediatori della flogosi. Infatti, al momento diverse cose sfuggono alla comprensione dei ricercatori.

Sappiamo che un ruolo fondamentale è ricoperto dai linfociti T helper del tipo TH2, che sono coinvolti nelle risposte allergiche; normalmente, questi sono in equilibrio con un’altra popolazione, i linfociti TH1, che invece lavorano per eradicare le infezioni. Sembra che nei soggetti asmatici vi sia uno squilibrio tra queste due popolazioni a favore dei TH2,che potrebbero così causare infiammazione indisturbati.

Nonostante i pazienti asmatici vivano dei periodi senza attacchi, il processo infiammatorio che colpisce la parete bronchiale non si esaurisce: purtroppo, nel tempo conduce a un rimodellamento delle vie aeree. Con questo termine si intende:

Obesità.

L’obesità è una malattia caratterizzata da un eccessivo accumulo di depositi di grasso, che attualmente rappresenta un problema di salute pubblica e si cura con difficoltà.

Normalmente, l’assunzione di cibo e il dispendio energetico sono in equilibrio tra loro, in modo che il peso corporeo rimanga stabile. Tale equilibrio viene mantenuto grazie a numerose molecole con funzione regolatoria, per esempio la leptina.

La leptina è un ormone peptidico prodotto dalle cellule del tessuto adiposo, che interagisce con i suoi recettori a livello ipotalamico determinando:

I suoi livelli si riducono quando il soggetto è a digiuno.

Si sospetta che, nei soggetti obesi, i meccanismi volti a consumare le calorie in eccedenza siano malfunzionanti. Probabilmente, a ciò contribuisce la resistenza alla leptina: quest’ultima viene prodotta in quantità adeguate, ma non riesce a trasmettere il segnale attraverso il suo recettore.

Abbiamo, dunque, un continuo accumulo di tessuto adiposo! Quest’ultimo non si comporta da semplice sito di deposito, ma produce diverse molecole, tra cui mediatori della flogosi, ragion per cui l’obesità è attualmente considerata una malattia infiammatoria cronica.

Lo stato infiammatorio associato all’obesità ha delle conseguenze piuttosto serie per la salute: per citarne una, conduce ad una situazione di insulino-resistenza, ossia l’insulina non riesce ad esercitare il suo effetto ipoglicemizzante, creando la base per lo sviluppo del diabete mellito di tipo 2.

Come contrastare l'infiammazione?

L’impiego di medicinali antinfiammatori nasce dalla necessità di contrastare il danno e la devastazione dell’architettura tissutale portati avanti da una risposta infiammatoria fuori controllo. Si tratta di farmaci sintomatici perché, purtroppo, non agiscono sulla causa della flogosi - che spesso non conosciamo - ma almeno rallentano il decorso della malattia, migliorando la qualità della vita delle persone.

Sulla base della struttura chimica e del meccanismo d’azione possiamo distinguere i farmaci:

Da un po’ di anni a questa parte, tra le armi dei clinici ritroviamo anche i farmaci biologici.

Farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS).

Questa classe di molecole è famosissima, perché molte di esse possono essere vendute senza obbligo di ricetta e, quindi, sono spesso pubblicizzate in televisione.

Ecco alcuni esempi dei farmaci antinfiammatori non steroidei più famosi:

In generale, i FANS possiedono tre azioni terapeutiche:

Tutte e tre le azioni sono legate all’inibizione dell’enzima cicloossigenasi (COX), grazie al quale è possibile ottenere mediatori lipidici dell’infiammazione come le prostaglandine (PGD2, PGE2, PGF2α, PGI2) e trombossani (TXA2).

L’effetto analgesico è direttamente correlato a quello antiflogistico: infatti, le prostaglandine riducono la soglia del dolore, come affermato in precedenza. L’effetto antipiretico deriva dall’inibizione della COX a livello cerebrale, per la precisione nell’ipotalamo.

Le prostaglandine, inoltre, partecipano alla reazione vascolare caratteristica dell’infiammazione: comportano una vasodilatazione e un aumento della permeabilità vascolare, con formazione di edema.

Tornando all’enzima cicloossigenasi, esso è presente nel nostro organismo in due forme:

Sebbene questi farmaci siano molto efficaci, purtroppo danno degli effetti collaterali che non possono essere disgiunti dai benefici.

Gli effetti collaterali insorgono quando si fa un uso cronico di FANS, ad esempio nell’artrite reumatoide.

I più comuni riguardano l’apparato gastrointestinale:

Le prostaglandine, specialmente PGE2 e PGI2, vengono quotidianamente prodotte dall’epitelio gastrico e hanno un’azione protettiva nei confronti della mucosa, ossia:

I pazienti che hanno una storia di ulcera, oppure che presentano un alto rischio di tossicità gastrointestinale (ad esempio, soggetti sopra i 65 anni), ma che non possono fare a meno di un trattamento antiflogistico, possono beneficiare:

Altri effetti collaterali riguardano la funzionalità renale. Infatti, in soggetti la cui funzione renale è compromessa, oppure che presentano ipertensione o insufficienza cardiaca, i FANS sono capaci di dare insufficienza renale acuta, in parole povere tossicità renale.

Le prostaglandine PGE2 e PGI2esercitano, infatti, effetti benefici anche a livello renale:

L’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei è controindicato in alcune persone, tra le quali:

Farmaci antinfiammatori steroidei (FAS).

I FAS (definiti anche glucocorticoidi) sono molecole derivate dal cortisolo, un ormone prodotto dalla corteccia delle ghiandole surrenali. Questi farmaci, piuttosto potenti, trovano largo impiego nella terapia di diverse patologie immuno infiammatorie, cioè malattie nelle quali la risposta infiammatoria è sostenuta da meccanismi immunitari (ad esempio, l’artrite reumatoide).

Il punto di forza dei glucocorticoidi è la loro azione “ad ampio spettro”, infatti inibiscono il processo infiammatorio agendo su più fronti:

bloccano la produzione di mediatori della flogosi, come interleuchina-1 (IL-1), fattore di necrosi tumorale (TNF) e molti altri.

Inibiscono la sintesi di fattori chemiotattici (che richiamano i globuli bianchi) e di molecole di adesione (che consentono la migrazione dei leucociti).

Bloccano la produzione dei fattori di crescita, che stimolano la proliferazione cellulare.

Inibiscono l’attività delle cellule infiammatorie (monociti, eosinofili, mastociti, linfociti) e delle cellule tissutali (endotelio, fibroblasti), prevenendo i fenomeni riparativi che caratterizzano l’infiammazione cronica.

Stimolano la sintesi di proteine antinfiammatorie, come il recettore 2 per l’IL-1, che rappresenta una sorta di “trappola” - non genera alcuna risposta biologica - e la lipocortina, che inibisce l’enzima fosfolipasi A2 e quindi la produzione di eicosanoidi, cioè prostaglandine, trombossani e leucotrieni.

Attraverso l’inibizione della sintesi di eicosanoidi riducono la reazione vascolare (vasodilatazione, formazione di edema tissutale) tipica dell’infiammazione acuta.

I molteplici effetti dei corticosteroidi ci mettono un po’ a verificarsi perché questi farmaci agiscono modificando l’espressione genica.

I FAS sono molecole liposolubili e possono entrare nelle cellule per semplice diffusione.

Nel citoplasma delle cellule si trova il recettore per i glucocorticoidi (che di solito lega il cortisolo); a seguito del legame con il farmaco, il recettore si attiva e si unisce a un altro complesso farmaco-recettore (si dice che forma un dimero).

Questo complesso entra nel nucleo e modifica la trascrizione del DNA - e la produzione di nuove proteine - in diversi modi:

Le vie di somministrazione più utilizzate per i FAS permettono di fare una distinzione in:

Corticosteroidi per via orale: prednisone, metilprednisolone, betametasone, desametasone, etc. Sono molecole di sintesi con un’attività antinfiammatoria più potente rispetto al cortisolo (addirittura betametasone e desametasone sono 25 volte più potenti dello steroide endogeno!). Sfortunatamente, condividono con il cortisolo anche funzioni (ad esempio, metaboliche) che non servono nella terapia antiflogistica, e che sono responsabili di effetti collaterali piuttosto importanti.

Gli effetti collaterali, che compaiono nel momento in cui si assumono dosi elevate di FAS per lunghi periodi, sono:

Corticosteroidi per via inalatoria: budesonide, flunisolide, fluticasone, etc. Sono i farmaci di prima scelta nella terapia di mantenimento dell’asma, utili per impedire l’insorgenza di attacchi di dispnea & co. e il rimodellamento delle vie aeree. Hanno una struttura leggermente più idrofila rispetto agli altri FAS, il che limita il loro assorbimento e quindi l’insorgenza dei gravi effetti collaterali visti in precedenza. Segnaliamo che essi non bloccano l’accrescimento nei bambini e non provocano osteoporosi negli adulti.

Gli effetti collaterali legati a queste molecole sono soprattutto di tipo locale.

Il farmaco viene inalato tramite dei dispositivi che si inseriscono in bocca, quindi una certa percentuale di farmaco si deposita nel cavo orale: ecco perché si può verificare una infezione da Candida (un fungo) a causa dell’effetto immunosoppressivo e antiflogistico dei FAS.

Come evitare che ciò accada? Bisogna lavare accuratamente la bocca e la gola ogni volta che si inala il farmaco. La candidosi, comunque, non è molto frequente.

Un altro effetto collaterale, che si manifesta più spesso, è la raucedine.

Farmaci biologici.

Una vera e propria rivoluzione nel trattamento di diverse malattie con patogenesi infiammatoria sta arrivando dai farmaci biologici! Si tratta di piccole proteine prodotte in laboratorio, che siano solubili o recettori di membrana, progettate per colpire specifici bersagli all’interno dell’organismo.

Tuttavia, per via del loro costo assai elevato, tali farmaci possono essere utilizzati solo in determinate situazioni, ad esempio quando i trattamenti antiflogistici di uso comune falliscono nel controllare i sintomi.

Altro grave problema di questi farmaci di nuova generazione è che il sistema immunitario può creare degli anticorpi ad hoc per inattivarli, riducendone così l’efficacia terapeutica.

Al momento esistono diversi farmaci biologici, ma in questa sede ne analizziamo solo due esempi:

E chi volesse ricorrere solo all’aiuto della natura? Nel seguente paragrafo, presentiamo alcune erbe che pare riescano a contrastare le infiammazioni.

Quali sono i rimedi antinfiammatori naturali?

Da secoli, nella medicina popolare, si ricorre alle erbe per contrastare l’infiammazione e il dolore associato. Ecco qualche esempio:

  • L’artiglio del diavolo.
  • Il salice bianco.
  • L’arnica.

Artiglio del diavolo.

Il nome scientifico dell’artiglio del diavolo è Harpagophytum procumbens. Si tratta di un arbusto che cresce nel sud del continente africano, introdotto in Europa agli inizi del XX secolo. Le radici secondarie di questa pianta, tradizionalmente, vengono usate per lenire il dolore, ad esempio quello scaturito dall’artrite. Ma la scienza ha mai confermato tali proprietà?

Sono stati condotti diversi studi sulla pianta, sia in vitro (sulle cellule) che in vivo (sugli esseri viventi), dai quali si evince che, in generale, l’artiglio del diavolo possiede proprietà antinfiammatorie e analgesiche.

Eccone un esempio:

Uno studio, randomizzato e in doppio cieco, che ha coinvolto 122 pazienti affetti da osteoartrite dell’anca o del ginocchio, ha comparato gli effetti dell’artiglio del diavolo con quelli di un farmaco usato in Europa per lenire la sintomatologia dolorosa, la diacereina (Leblan D. et al. Joint Bone Spine, 2000).

Dopo 4 mesi è stato notato un miglioramento, sia del dolore che della disabilità funzionale provocata dall’artrite, in entrambi i gruppi di studio, mostrando l’efficacia dell’artiglio del diavolo. È stata osservata anche un’altra cosa interessante: i pazienti che avevano assunto l’artiglio del diavolo avevano fatto meno ricorso a FANS come il diclofenac o il paracetamolo per lenire il dolore.


Le proprietà dell’artiglio del diavolo sembra siano dovute all’arpagoside, un glicoside iridoide. Tuttavia, quando questo viene usato da solo risulta meno efficace rispetto alla radice della pianta in toto.

Come è possibile? In realtà, è un fenomeno che si verifica assai spesso nel Regno vegetale: un insieme di sostanze, chiamate fitocomplesso, agiscono per ottenere un determinato effetto. Perciò l’effetto dell’arpagoside risulta potenziato dal fitocomplesso. Ma come si può assumere questo rimedio?

Possiamo trovare l’artiglio del diavolo sotto forma di:

  • creme (come no-dol), gel e unguenti;
  • estratto secco (capsule o compresse);
  • tintura madre da assumere con acqua;
  • infuso.

Purtroppo, esistono delle controindicazioni all’uso di artiglio del diavolo.

  • è sconsigliato in caso di ulcera peptica, poiché le molecole attive contenute nella radice sono amare e aumentano la secrezione acida gastrica;
  • è da evitare in gravidanza, in quanto uno studio condotto su ratti femmina ha dimostrato che l’estratto di artiglio del diavolo ha un effetto stimolante sulla muscolatura uterina;
  • è controindicato durante l’allattamento, perché non abbiamo la certezza che arpagoside & co. non possano accumularsi nel latte materno.

Al momento, l’artiglio del diavolo è risultato essere ben tollerato. Ad ogni modo, solo ulteriori studi potranno chiarire l’efficacia di questo fitoterapico nelle varie patologie infiammatorie, ed altre informazioni importanti che possono condizionarne la scelta.

Salice bianco.

Il salice bianco (Salix alba) è un albero che cresce nelle zone con elevata umidità, la cui corteccia essiccata viene utilizzata a scopo terapeutico, a volte associata all’artiglio del diavolo.

Proprio la corteccia, infatti, contiene acido salicilico, dal quale venne ottenuta, più di un secolo fa, la celeberrima aspirina (acido acetilsalicilico). L’acido salicilico opera all’interno di un fitocomplesso:, esistono dunque altre sostanze, come i glicosidi fenolici, i flavonoidi, le catechine, i tannini, che determinano insieme le proprietà antinfiammatorie, analgesiche e antipiretiche della corteccia di salice.

Questo rimedio fitoterapico interagisce, ovviamente, con l’aspirina ed è assolutamente controindicato nei soggetti con ipersensibilità all’acido acetilsalicilico.

Arnica.

L’arnica (Arnica montana), anche detta tabacco di montagna, è un’erba perenne della quale si usano i fiori, freschi o essiccati. Questi contengono diversi composti (olio essenziale, flavonoidi, carotenoidi, cumarine, fitosteroidi e lattoni sesquiterpenici) di cui è stata osservata l’attività antinfiammatoria, sia in vitro che in vivo (Lyss G. et al, 1997; Klaas CA et al, 2002).

L’arnica è destinata esclusivamente a un uso esterno, sotto forma di creme, pomate, unguenti, e non va mai usata sulle ferite aperte.

Attenzione, però: può causare una dermatite allergica nei soggetti sensibili!

E la prevenzione è possibile? Ebbene sì: vediamo quali sane abitudini quotidiane possiamo adottare per ridurre il rischio di infiammazioni.

Stili di vita che riducono lo stato di flogosi.

Farmaci e rimedi naturali si rivelano fondamentali per curare le infiammazioni in corso, ma è possibile anche intervenire prima, in fase preventiva. Infatti, le nostre abitudini possono condizionare il rischio di sviluppare una malattia infiammatoria: è sempre meglio prevenire che curare!

Vediamo, allora, cosa possiamo fare per migliorare il nostro stato di salute.

Stop al fumo.

Se decidi di smettere di fumare - o di non cominciare mai - ti fai un grosso favore!

Il fumo, infatti, è capace di provocare danno tissutale, e perciò infiammazione, per i seguenti motivi:

  • è un concentrato di radicali liberi, sostanze ossidanti che possono danneggiare le cellule direttamente, per esempio interagendo con le membrane lipidiche, oppure indirettamente. Infatti, possono inattivare degli enzimi protettivi, come l’α1-antitripsina, che inibisce la degradazione della matrice extracellulare da parte dell’enzima elastasi;
  • determina l’attivazione di cellule infiammatorie, che a loro volta producono mediatori della flogosi, specie reattive dell’ossigeno ed enzimi proteolitici;
  • viene inalato ad una temperatura elevata.

Per i motivi appena esposti, è stato osservato che l’abitudine al fumo:

  • peggiora i sintomi dell’asma e provoca un declino più rapido della funzione polmonare rispetto agli asmatici non fumatori;
  • aumenta il rischio di sviluppare patologie come il morbo di Crohn e l’artrite reumatoide.

Dieta sana.

L’importanza della dieta emerge in particolar modo quando guardiamo a patologie infiammatorie come l’obesità, nella quale esiste uno squilibrio energetico a favore dell’accumulo, e la gotta, che deriva da un’alterazione metabolica.

Di seguito riportiamo alcuni suggerimenti utili:

  • ridurre le porzioni di cibo;
  • limitare drasticamente i consumi di bevande zuccherate e bere più acqua;
  • aumentare i consumi di frutta e verdura, che apportano anche fibre, vitamine e sali minerali;
  • consumare cereali integrali, che contengono anche fibre; La presenza della fibra alimentare riduce la densità energetica di un alimento, vale a dire il numero di calorie che un alimento contiene per unità di peso. Consumare la giusta quantità di vegetali, nei quali sono contenute proprio le fibre, permette di introdurre meno calorie e di controllare meglio la fame.
  • prediligere le carni magre, ed in particolare il pesce ricco di acidi grassi omega-3;
  • consumare latticini poveri di grassi;
  • evitare il più possibile i cibi fritti.

Ricordiamo, tuttavia, che gli accorgimenti adottati a tavola da soli non bastano, ma devono essere accompagnati dalla pratica costante dell’esercizio fisico.

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